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“Making a Murderer” di Netflix e la causa per diffamazione: cosa è successo

Da Redazione

Marzo 16, 2023

“Making a Murderer” di Netflix e la causa per diffamazione: cosa è successo
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Un giudice federale ha respinto una causa per diffamazione intentata da un agente di polizia in pensione che sosteneva che la docuserie Netflix “Making a Murderer” lo accusasse falsamente di aver piantato delle prove.

“Making a Murderer” di Netflix e la causa per diffamazione: cosa è successo

Un agente di polizia in pensione ha intentato una causa per diffamazione, sostenendo che la docuserie Netflix “Making a Murderer” lo accusasse falsamente di aver piantato delle prove.

La docuserie “Making a Murderer”, che ha debuttato su Netflix nel 2015, racconta un processo per omicidio e nel farlo assume il punto di vista della difesa, secondo cui la polizia aveva incastrato un uomo, Steven Avery, per un omicidio che non aveva commesso. Avery è stato giudicato colpevole e condannato all’ergastolo.

“Making a Murderer” è diventata una serie di grande successo e ha dato l’input per un vero e proprio boom del genere true crime su Netflix.

Andrew Colborn, agente di polizia ora in pensione ma coinvolto nel caso raccontato in “Making a Murderer”, ha intentato una causa per diffamazione contro Netflix nel 2018. L’ex agente denuncia il fatto che la serie lo abbia sottoposto ad una “ridicolizzazione mondiale”. Inoltre, sostiene che Netflix abbia distorto i fatti, alterato le testimonianze e omesso informazioni chiave, tutto per ritrarre falsamente Colborn come un ufficiale corrotto che aveva piantato prove.

Interviene il giudice federale: “non c’è prova di malizia”

In una sentenza sul giudizio sommario, il giudice federale Brett Ludwig ha però respinto la causa poiché il querelante non è riuscito a dimostrare che Netflix o i cineasti avevano agito con “vera malizia” nel creare il suo personaggio.

In quanto agente di polizia, Colborn è un personaggio pubblico. Doveva dunque dimostrare che i cineasti sapevano che quello che dicevano su di lui era falso, oppure mostravano una sconsiderata indifferenza a che il fatto fosse falso o meno. Nella sua sentenza, Ludwig ha sottolineato che il querelante non poteva dimostrare nessuna delle due cose.

“Il Primo Emendamento non garantisce a un personaggio pubblico come Colborn il ruolo di protagonista nel discorso popolare – anzi, protegge la capacità dei media di metterlo in una luce molto meno lusinghiera, ha scritto il giudice.

Il giudice ha ritenuto che non fosse possibile dimostrare determinate dichiarazioni riguardassero specificamente Colborn, come un cliente di un bar che nella serie dice: “Ho solo una parola, dai poliziotti in su; è corruzione. E anche tanta. Intendo,
se le persone scavano abbastanza a fondo, lo vedranno”.

Secondo il giudice: “Se questa vaga critica della burocrazia costituisse diffamazione, la libertà di parola sarebbe ridotta alla libertà di elogiare chi è al potere”.

Gli avvocati di Colborn hanno sostenuto che alcune e-mail del team di produzione Netflix mostrassero che i produttori lo hanno intenzionalmente ritratto come il cattivo. Ma il giudice non si è convinto di ciò, ribadendo che Colborn non aveva trovato prove di malizia (intesa come consapevole ignoranza del falso) nelle comunicazioni.

“Niente in nessuna di queste e-mail indica l’intenzione di implicare che Colborn abbia incastrato Avery”, ha detto il giudice. E conclude:

“Alla fine, il ruolo di Colborn in ‘Making a Murderer’ potrebbe non essere stato di suo gradimento, ma questo non lo rende diffamatorio. Pochi aspirano a entrare nello zeitgeist culturale in termini così controversi. Questa possibilità, tuttavia, è un sottoprodotto necessario della libertà di stampa che il Primo Emendamento protegge. Se i media potessero ritrarci solo al meglio, saremmo un paese di caricature asettiche, e per questo meno intelligenti. Non siamo ancora sprofondati così in basso.

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